Studio Alchimia @ Nuove Intenzioni del Design

Il design non sai più bene cosa sia e parlare di progetto, felice o infelice, non ti riesce; il rock ti ha salvato la vita.

Mostra & Pubblicazione Studio Alchimia @ Nuove Intenzioni del Design, Reggio Emilia, Italy, 18 April 1982

Studio Alchimia con A. Mendini, “Il Mobile Infinito”, Facolta di Architettura, Milano, settembre 1981

Studio
Alchimia

Il design non sai più bene cosa sia e parlare di progetto, felice o infelice, non ti riesce; il rock ti ha salvato la vita. Ti sembra allora che un mobile o un libro o una mostra di Studio Alchimia dovrebbe essere come andare a sentire Talking Heads o vedere Lampi sull’acqua, cioè che le sensazioni fossero molto forti, che progetti e disegni risuonassero a lungo nella testa al massimo volume e anche dopo un po’ non si sentisse bene quello che ti sta dicendo la ragazza che è con te e che vorresti portare a casa tua.

Perché così come hai bisogno della ragazza hai bisogno di essere stravolto da un progetto molto poco tranquillo,, che arriva da Varsavia e Berlino, da Zurigo e Londra, e Rotterdam e Milano, da qui dritto attraverso giardini pubblici con milanese pomposità chiamati Parco e invece unicamente preziosi per la loro totale estraneità a qualsiasi mitteleuropea concezione di architettura di giardini e invece didatticamente urbani e ricchi di giovani prostitute e tranquille coppie con bei bambini o anche brutti e genitori prigionieri della loro professione evoluta o del loro vivere ed abitare nell’hinterland milanese cioè uno dei paesaggi più tristi della mia vita che anche oggi che c’è il sole fa schifo tra queste case veramente brutte né banali né decorate dove solo deve essere davvero triste e terribile nuotare tra grigio, marrone e verde sporco che sono poi i colori della bandiera del paesaggio urbano italiano. Cioè il novantanove per cento non disegnato da nessuno di noi, architetto, progettista, decoratore, musicista, grafico, regista, truccatore, costumista, scenografo o pittore, che da lì misteriosamente salta fuori e che puoi trovare invece intento a suonare un duro rock di diamante allo Studio Alchimia, tirando dentro storie personali di intellettuale, liberai, radica], di sinistra, anarchico filo-fascista, neomoderno, postavanguardo o, peggio di tutti, post-moderno. Che adesso sembra siamo tutti, anche Eno e Bowie e Guerriero: e anche Muzio, che i post-moderni seri intanto spostano di qua e di là tra le categorie critiche, in attesa di farcire con caratteri stilistici e costruttivi dei monumenti lo schifoso Italian urban landscape, questo “panettone di immondizia” come di altro dice LV che a trovare insulti odorosi è brava, abituata a rovistare con rigore filologico negli ospizi alla ricerca dell’altra metà, delle nostre amate/odiate madri/amanti. E anch’io, ma senza nessun rigore e con molto rispetto ho chiamato un timer Popova come si può chiamare un divano Kandissi e una libreria Oscar (e ancora Lissiski, Libera e Maiakiosk o) allo Studio Alchimia, questa specie di nowhere land o Utopia che appunto non è facile spiegare anche perché non si spiega questo modo di sentire e rispondere subito in questa conversazione continuamente interrotta (appunto succede spesso di essere interrotti nel flusso continuo di giornalisti, critici, industriali, truffatori, saggi, ginnici e folli venuti a vedere il Bambino che farà miracoli), questo monologo con l’architettura, il design, il costume, la moda, il teatro, l’arte, il trucco, la musica, la grafica.

La casa di uno spettro che ancora si aggira per l’Europa, molto più diafano e solido, morbido ed aggressivo, colorato e senza colore, onnipresente e pronto a svanire per non essere più visto o ricomparire, a teatro, al Carnevale, a Cinecittà, in un Palazzo di Monaco, in una sfilata di mode alla Stazione di Firenze, a Reggio Emilia, sempre più simile ad un rock post-atomico, poco disposto a farsi suonare dai mercanti in Fiera, o nei giovani e moderni showroom di Tokio, New York e Milano, tanto innamorati di melensi remake dei blues del Tennessee.

Uno Studio pronto a trasformarsi in una seria band di professionisti, deciso a muovere show-business, oggetti, prodotti, architetture, veri e segnati da un leggero calore, come la febbre alchemica dei suoi adepti, che non li lascerà più, un mal caduco che ancora li farà suonare e ballare “dancing to a rock and roll station”.­­

Stefano Casciani